AL WEGIL di Roma fino al 12 luglio le foto di Elliott Erwitt. Il Fotografo in cerca dell'attimo

di Giulia Di Trinca 01/07/2020 ARTE E SPETTACOLO
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Complici l’estate, le misure di sicurezza anti covid-19 e la scarsità di turisti in visita, si ha in questo periodo, la rara occasione di godersi Roma e le sue proposte culturali. Per molte delle mostre inoltre, che sono state bruscamente interrotte durante la quarantena si è pensato a proroghe più o meno durature in modo da consentirne ancora la visione.

Tra quelle prolungate ma vicine alla chiusura, vale la pena segnalare l’esposizione dedicata al fotografo Elliott Erwitt, accessibile al WEGIL, fino al 12 luglio.

Non si può evitare di spendere qualche parola sul complesso che la ospita, un tempo noto come GIL, la Casa della Gioventù Italiana del Littorio, esempio di architettura razionalista risalente al 1933 e commissionato dall'Opera Nazionale Balilla (ONB) all'architetto allora ventiseienne Luigi Moretti. L'area prescelta per il grande progetto fu quella dell'isolato stretto e lungo, compreso tra Porta Portese, le Mura Gianicolensi e Viale Trastevere.

Il complesso fu realizzato per offrire ambienti ed attrezzatura per l’educazione e la preparazione politico-militare e ginnico-sportiva, oltre all’assistenza sanitaria e sociale della gioventù dell’epoca. Risulta costituito da tre corpi distinti per forme, dimensioni e funzioni. Quello quadrangolare, occupato al centro da un cortile, ospita la piscina coperta, il refettorio, le aule e il cinema teatro (trasformato nel 1952 nella sala cinematografica Induno, successivamente intitolata a Troisi); il corpo centrale, alto e allungato è riservato alle tre palestre; quello di rappresentanza infine, culminante in una torre, ospita il Salone d'Onore, l'Area Esposizioni, la Biblioteca e la Sala delle Riunioni.

Dopo la guerra l'edificio cadde in disuso fino al 1969 quando una parte fu concessa all'Opera Don Orione che trasformò le palestre, i corridoi ed i saloni in dormitori e aule per ragazzi, stravolgendone parzialmente l’esterno e l’interno.

Nel 1981, scaduta la convenzione, l'edificio fu abbandonato fino all’acquisizione da parte della Regione Lazio e del Comune di Roma.

Nel 1983 la Galleria d'Onore, la Torre e gli Uffici furono occupati dall'ente regionale ERFAP-Uil, mentre gli ambienti sportivi furono trasformati nel centro sportivo Roma Uno.

Nel 2000 la Regione iniziò a programmare un intervento di recupero conservativo per le strutture di sua proprietà e tra il 2005 ed il 2007, l'edificio fu soggetto ad un'opera di restauro filologico che ripristinò tra le altre cose, il colore delle murature esterne, eliminando il rosso scuro degli anni Sessanta per riassumere il bianco originale degli anni Trenta.

In seguito ad un successivo restauro, nel 2017 l'edificio è diventato WEGIL, hub culturale gestito dalla Regione Lazio. Allo spazio si accede dalla cosiddetta Torre Littoria interamente rivestita di travertino che porta ancora, sulla parete d’ingresso, due scritte di epoca fascista inneggianti alla gioventù e al combattimento e sotto di esse una balconata in cemento armato col parapetto costituito da tre aquile alternate a fasci littori.

Varcato l’ingresso si arriva al Salone d’Onore, adibito ad allestimento della mostra. Sono state collocate come supporto alle foto, quinte di due colori, il rosso mattone ed il nero che suddividono l’ampio e luminoso spazio di questo ambiente di rappresentanza, costituito da sei grandi pilastri ricoperti di marmo statuario venato e dalla pavimentazione in marmo bardiglio, risplendenti grazie alla luce filtrata dalle vetrate.

La predisposizione espositiva, essenziale e geometrica, s’inserisce bene in questo primo ambiente del GIL e riesce a sostenere il peso dei segni del passato ancora in essere. In fondo a sinistra, a piena parete, è tuttora visibile l’enorme rappresentazione in stucco dell’Africa del 1936, celebrazione del passato coloniale italiano, incorniciata da una famosa frase pronunciata da Mussolini e dalle date delle battaglie vinte in loco dagli italiani.

L’iniziale M del dittatore, incisa a caratteri cubitali a fianco alla rappresentazione del Corno d’Africa, condivide lo spazio con i meravigliosi ritratti di Marilyn Monroe, icona cinematografica degli anni ‘50, protagonista non solo della vita artistica ma anche politica del suo tempo.

Un acuto accostamento che celebra la vena ironica dell’opera di Elliott Erwitt, una delle sue più evidenti cifre stilistiche.

I ritratti dell’attrice, che mostrano l’affascinante connubio tra la sua aria svampita e lo sguardo lucido, consapevole e ricordano una donna spesso precorritrice del proprio tempo, come nel caso della sua amicizia con Ella Fitzgerald, incurante del pregiudizio razziale dell’epoca, tengono testa al pesante passato di guerra ed introducono le molteplici e controverse atmosfere degli anni successivi al Secondo Conflitto Mondiale, immortalate dal grande fotografo.

Nato a Parigi, di origini russe, Elliott Erwitt è uno dei più grandi fotografi viventi, membro della famosa agenzia Magnum Photos, di cui fu anche il presidente, a partire dal 1968 e per tre mandati consecutivi.

Il suo lavoro viaggia su due binari, la capacità di cogliere l’attimo e quella d’inventarselo, alla continua ricerca di una compiutezza vitale e palpitante, costruita su raffinati equilibri.

Le settanta opere in mostra raccontano l’arte eclettica delle sue foto documentarie e pubblicitarie.  

Queste ultime e i servizi di moda risultano, senza perdere di genialità, più meditati, come la famosa foto per il New York Times magazine, usata per pubblicizzare calzature, che ritrae il chihuahua in maglioncino. In quel caso Erwitt fissò l’immagine dal punto di vista del cane, sostenendo che nessuno più di loro ne sapesse di scarpe e sfruttando le sue proporzioni rispetto a quelle della donna con gli stivali e del cane di grossa taglia.

Nelle sue foto coesistono molteplici piani prospettici, spazi vuoti e pieni, illusioni ottiche, varietà di proporzioni metriche e geometriche.

All’interno delle cornici si viene proiettati ogni volta in un mondo a sé stante, che ha vita propria e nel quale i protagonisti continuano ad esistere, nonostante siano solo impressi sopra la carta fotografica. Si ha la magica sensazione di essere in quel luogo, in quel momento, attraversati dalle stesse emozioni dei soggetti ritratti.

Ci si gode il sigaro in compagnia di Che Guevara, si respira la tensione dell’incontro tra Nixon e Kruscev, la spensieratezza del bacio nell’opera “California Kiss”, una delle più famose di Elliott Erwitt, nella quale tramonto e sorriso della donna rappresentano gli estremi di un ciclo infinito di amore e speranza.

Soffermandosi di fronte all’immagine della first lady Jacqueline Kennedy che presenzia i funerali del marito, si noterà il punto luminoso di una lacrima che scivola giù per la veletta nera calata sul suo viso e sarà inevitabile addolorarsi con lei.

L’istante colto da Erwitt diventa universale e parla a tutti, indipendentemente dalla generazione. Nel 1950, il fotografo ritrae un allegro bambino afroamericano che si punta una pistola alla tempia, un gioco tremendamente serio ed attuale che rimanda al problema del razzismo e alle recenti rivolte negli Stati Uniti contro gli abusi della polizia.

Erwitt, che ha spiegato come le “foto più belle possano capitare in qualsiasi momento ed in qualsiasi luogo”, riesce a trasformare l’ordinario in qualcosa di speciale cui ambire. Un abbraccio in cucina, l’ozio seduti sulle scale di casa, la tenerezza familiare. Una foto divenuta tra le più richieste nelle retrospettive a lui dedicate, è quella che ritrae in camera da letto la sua prima moglie con la sua prima figlia appena nata ed il suo primo gatto. Lo scatto suggellato da una luce assoluta, quieta e profonda, idealizza quell’istante, proiettandolo nel mito. È il principio di una storia d’amore e di vita destinata a durare in eterno e nonostante tutto.

Mentre si guadagna l’uscita, prima di attraversare di nuovo il vestibolo, non si può far a meno di notare lo slogan di epoca fascista, inciso in alto: “Noi siamo gli anticipatori di un avvenire”.

Arrivò invece, un Futuro diverso, quello che vollero gli uomini, che dettarono le circostanze e di cui Erwitt rimane un fervido testimone.

 


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